Elisa Simoni, la cugina di Renzi a Libero: "Date una calmata a Matteo"

«È doveroso dare una mano a Matteo, perché rischia grosso, e se fallisce cola a picco il Paese, non solo il Pd. Penso alla crisi di leadership del centrodestra, alla sua frantumazione, penso alle ribellioni locali, al dilagare del movimento 5 stelle e dell’antagonismo bieco, e mi viene male per la sorte dell’Italia. Io ci sono, però lo voglio pungolare, non intendo stare a guardare mentre occupa lo spazio della sinistra, porta il partito nel Pse, si propone come leader del riformismo europeo, sussurra all’orecchio degli ultimi e dei giovani, concede 85 euro ai ceti più deboli, dichiara guerra ai tecnocrati, insomma occupa tutto lo spazio del carisma, degli annunci, della comunicazione, e guai a criticarlo; ma criticarlo è d’obbligo e anche contrastarlo in Parlamento perché nello stesso tempo introduce una normativa sul lavoro che ha aspetti positivi ma che produrrà precari disperati, gente costretta a vivere ai margini, tra un contrattino e un altro, nessuna speranza non dico di un mutuo ma neanche di un’iscrizione all’asilo, e nel far questo non dice che a pagare saranno proprio le donne e i giovani». Con parenti e amici, perché sono ancora e sempre amici, così, Matteo Renzi ha poco da stare tranquillo. La deputata Elisa Simoni, Pd duro e puro, cugina del presidente del Consiglio, ha scelto di stare contro di lui invece che con lui, ma guai a tacciarla di aspirante leader della minoranza, perché lei non intende né ascoltare le sirene dell’unanimismo intorno all’uomo della Provvidenza né diventare opposizione interna sterile, schiaffeggiata dalle accuse di intralciare le riforme. Lo vuole incalzare, tallonare, in fondo costringere a venire a patti. Ha cominciato firmando con le altre 90 deputate la protesta per l’uso della presenza femminile nel progetto di riforma elettorale, l’Italicum, perché «inutile chiamarsi fuori sostenendo che lui è a posto e ha messo le donne nel governo, se poi consente che nei collegi che verranno finiscano come al solito in fondo alla lista».



Ci sono nel Partito Democratico donne interessanti, il contrario delle Madia, non sarà un caso se al governo Matteo la cugina non se l’è portata. Trattasi di tigre, non di cooptata. Non si sente un’antagonista, non intende finire nel ghetto dell’antirenzismo, non le interessa fare il battitore libero alla Pippo Civati e nemmeno quello esitante sulla porta di uscita come Gianni Cuperlo, al contrario la Simoni, giovane tanto quanto Matteo, un passato di assessore alla provincia, elezioni con più di diecimila preferenze, due figli di cui una allattata tra casa in Toscana, Parlamento ed Eurostar, intende restare dov’è, e spuntarla, a partire dal Job act, che così com’è non le piace.
«Il decreto sulla riforma del lavoro contiene cose buone, intendiamoci, riesce a guardare a chi ha di meno, introduce maggiore equità negli ammortizzatori sociali, ma la contrattualistica e l’apprendistato no, non sono di sinistra e nemmeno da riformista, non hanno funzionato altrove. La flessibilità serve ma il decreto la imposta non come bisogno, non come emergenza, ma come soluzione. La verità? È una ristrutturazione selvaggia con un po’ di infarinatura di sinistra. L’alleggerimento di carico sulle imprese si carica sullo Stato, che non ce la fa, ma questo problema si rinvia, si sottace. Perché non parte dal taglio ai costi della burocrazia? Lui è rapido, è dinamico, osserva i tempi stretti che la crisi impone, ha coraggio ma se vai contro il sindacato, cosa che mi sta anche bene, allora devi contrastare anche le imprese che al Paese non hanno dato ma solo preso, che non hanno investito in economia reale, che hanno costruito fortune sull’uso totale del precariato anche quando le cose andavano meglio. Questa parte del decreto la deve cambiare».
Dice proprio così, che la deve cambiare, e che la sinistra Pd saprà farsi ascoltare senza cadere nella trappola pronta dell’accusa di antirenzismo, di minoranza querula ed estremista. «Quando il segretario è diventato premier, si è consumato il congresso, se Renzi fallisce il Pd è finito, ma guai a lui se si chiude alla critica, se mi risponde tu non vuoi cambiare io si, è il mio presidente del Consiglio e per farcela nel merito mi deve stare a sentire. Così per il partito, quello che ha in testa lui è piegato ai suoi bisogni di ricerca del consenso del governo, è un comitato elettorale, ma non funzionerà. Dovrà andare a spiegare e non propagandare, dovrà ascoltare le teste, non solo le pance. Al leader carismatico il Pd è arrivato tardi, ha fatto muro per vent’anni, intanto c’era Berlusconi, poi è arrivato Grillo, miopie e fallimenti hanno aperto la strada a Matteo Renzi finalmente. Il leader carismatico è un bene, non è destrorso, ma va calmierato, controllato, contro le derive, contro il culto della personalità».

di Maria Giovanna Maglie

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