di Giancarlo Memmo
Il problema o
fenomeno immigrazione è sotto gli occhi di tutti ed è ormai trasversale in
quartieri e città. E' un problema complesso perché ha risvolti giuridici, sociali e sociologici, politici
e criminali.
I
risvolti giuridici.
In Italia esiste un
reato legato allo "status" di una persona, cioè se il soggetto
non è un turista (soggiorno fino a 6 mesi) o se non è un residente-cittadino Ue
o un dichiarato "asilo politico", allora è un
"clandestino". Possiamo solo notare che i reati legati allo status
sono pericolosi perché possono cambiare a seconda delle scelte politiche: un
giorno il decisore politico potrebbe prendere in considerazione il reato di
"meridionalità" se orientato da tendenze "nazionaliste"
oppure quello di "genitore separato" se il decisore politico facesse
una svolta teocratica. Ma se questa è la considerazione giuridica più evidente,
ne esistono altre appena nascoste.
Infatti la seconda
considerazione giuridica deve vertere sul fatto che l'Italia è un paese Euro e
Ue, ci sono dei trattati comunitari, c'è Schengen...come disse un
politico italiano "se oggi dessimo agli extracomunitari sbarcati una
cittadinanza italiana ma anche solo un permesso di soggiorno la Francia (e non
solo) non potrebbe respingerli". Sono parole importanti e che vanno
coniugate con la volontà dei migranti di
non rimanere in Italia e con gli obblighi dei paesi Ue degli "accoglimenti
in ripartizione" di quote, doveri che sussistono nonostante i fondi Ue
(compensativi) destinati al paese di "primo approdo".
Ma esiste una terza
considerazione giuridica interessante: il reato di traffico internazionale
di clandestini (specialmente il "concorso") stride con l'obbligo
internazionale delle leggi della navigazione marittima che prevedono il dovere
di salvataggio in mare dei profughi che non può essere riservato solo a certe
nazionalità o status, riguarda "chiunque versi in una situazione di
pericolo". Ora su questo punto bisognerebbe discutere l'ambito di applicatività
(acque nazionali, acque internazionali, bagnasciuga della Libia, ecc.).
La quarta
considerazione giuridica riguarda i "trattati bilaterali" di
restituzione dei profughi. Qui bisognerebbe capire, visto che diamo dei soldi,
che tipo di garanzie umanitarie offrono tali paesi e soprattutto come e se
realizziamo il monitoraggio e le verifiche.
La quinta
considerazione riguarda gli espedienti
giuridici del Viminale con protocollo Confindustriale, come quello sul lavoro
"gratuito" "offerto" dai migranti, di quelli dei Cara e
di tutti quei centri di "identificazione ed espulsione" dove sarebbe
importante studiare indicatori tipo la permanenza e la ricollocazione dei
migranti (diritto di asilo o rimpatrio, “tertium non datur”… ma pare che
funzioni solo il "tertium").
La sesta
considerazione riguarda gli aspetti giuridici che tentano di stabilire le
differenze tra immigrazione "economica" oppure di "necessità".
Ecco queste ultime tracciature giuridiche mi ricordano tanto i confini neo
coloniali soprattutto inglesi, tracciati con la riga e la squadra in Medio
Oriente all'inizio del secolo scorso. Per sapere come hanno funzionato occorrerebbe
chiedere ai Curdi. Quello che appare evidente è che i profughi che vediamo noi
non sembrano semplici "insoddisfatti della loro posizione lavorativa e
desiderosi di migliorarla".
La settima
considerazione non può dimenticare i trattati di finanziamento e di
"aiuto e cooperazione internazionale" che foraggiamo non solo noi italiani. Esiste una verifica
"internazionale e superpartes" e un monitoraggio di quelle risorse?
Come ottava e ultima
considerazione dovremmo citare il problema delle Onlus. Esiste una
normativa specifica che permetta di impedirne di farle (astrattamente) i
"fiancheggiatori degli scafisti"?. Se non c’è cosa aspettano i
decisori politici a crearla?
Insomma come si vede il profilo giuridico è
complesso e intricato tuttavia non irrisolvibile, risolverlo è un problema
squisitamente politico.
I
risvolti sociali e sociologici.
Naturalmente
ingloberemo in questo aspetto anche alcune riflessioni economiche.
La prima domanda da porci è:
preso atto del fenomeno dell’immigrazione,
una volta regolati correttamente gli aspetti giuridici, chiediamoci quale
modello di integrazione culturale vogliamo?
L’identità
culturale e il pregiudizio sono meccanismi naturali nelle organizzazioni
sociali, infatti se è necessario per la società mantenere un’identità
culturale, pena la scomparsa, il pre-giudizio è un meccanismo difensivo innato
che permette agli “autoctoni” di salvaguardare l’identità e quindi la società
stessa. Sono meccanismi che vanno governati non annullati coattivamente o
abbandonati a sé stessi. Per onestà intellettuale dobbiamo anche dire che tutte
le popolazioni “autoctone”, in qualche modo si sono sempre, nel tempo,
“imbastardite”, questo è anche un processo naturale che porta a evoluzioni
antropologiche positive.
Il primo modello
culturale di integrazione, è quello della “pentola”, della fusione culturale
o melting-pot. Forse tutti noi deriviamo da quel modello, ma perché la
fusione funzioni, ammesso che sia possibile, ci vuole tempo, molto tempo.
L’amalgama delle culture, l’unificazione sotto “valori terzi” negli States non
ha dato grandi risultati. Ha portato a gradi diversi di separazione che
sembrano meno appariscenti perché gli USA hanno grandi estensioni. Tuttavia le
cronache ci dicono che è prevalsa la separazione, anche per la classe operaia:
unita nel posto di lavoro, ma rigorosamente divisa nei posti di residenza e nei
quartieri dove prevale la componente etnica “divisiva”. Insomma è una “fusione
a freddo” senza adeguate politiche di accompagnamento e di governance, che
offre risultati scadenti.
La variante dell’assimilazione
francese, cioè stato laico e rinuncia degli ospitanti alla propria cultura
e al proprio gruppo entnico, direi che in Francia è ampiamente naufragata nelle
“banlieu” con i loro irrisolti problemi e nei fatti di cronaca che ce li
ricordano costantemente.
Comunque era un modello debole eticamente
(come fai a dire a un immigrato-persona rinuncia alla tua identità e prendi
questa) ma anche praticamente abbiamo visto che la rinuncia non c’è stata ed è
prevalsa la ghetizzazione perché le culture “approdanti” non sono ancora state
intaccate dal “relativismo etico” come quello delle società di approdo e quindi
gioco forza non le assimili.
Il modello funzionalista
del lavoratore-ospite temporaneo, quello tedesco, di fatto è un modello di
non integrazione, ma di sfruttamento economico che funzionerà fino a quando la
Germania con l’euro farà pagare il suo welfare e il suo standard del mercato
del lavoro, ai PIIGS e dintorni attraverso la svalutazione salariale coatta
verso le economie “non allineate” a quella teutotonica. Diciamo che in piccolo
fa quello che in grande abbiamo fatto noi come Paesi del Nord del Mondo, che
sfruttando le risorse del Sud del Mondo ci siamo pagati stato sociale e
dintorni per un certo periodo.
Il modello multiculturalista,
basato sullo scambio tra riconoscimento culturale e democrazia partecipativa
dei gruppi “riconosciuti”, non è che nel Regno Unito abbia funzionato gran che,
almeno secondo gli ultimi fatti di cronaca.
Quindi bisognerebbe
sapere a che tipo di modello noi italiani ci ispiriamo. Noi in realtà ci
ispiriamo a un non-modello. Non c’è stato nessun dibattito culturale
serio, nessun dibattito politico decente, quindi andiamo avanti in “emergenza”.
Forse queste modalità fanno comodo a qualche gruppo degli “autoctoni”?
Facciamoci delle domande:
1)
È
possibile muovere 300.000 persone all’anno senza che esista una “filiera”
italiana di interessati? E questi interessi fino a dove arrivano? Sono
prevalentemente leciti?
2)
La
globalizzazione non doveva essere una grande occasione di “specializzazione per
i paesi nei prodotti dove hanno il vantaggio competitivo” (come diceva il
teorema di Ricardo) o si è conclusa nei programmi televisivi dei quiz milionari
a premi Mediaset-Rai, molto visibili in Albania e che hanno convinto molti
albanesi che qui c’era il paese del Bengodi?
3)
Come
mai spendiamo oltre 5 miliardi di euro all’anno per “gestire” 300.000 immigrati
,cioè il fenomeno dell’immigrazione, e per il rinnovo dei contratti del
pubblico impiego scaduti da 10 anni ci sono a mala pena 3 miliardi per
3.000.000 di dipendenti?
4)
Sia
chiaro è sicuramente vero il fenomeno del proliferare delle aziende
“extracomunitarie”, è una realtà che dopo la sistematica e scientifica
distruzione dell’artigianato autoctono e delle piccole imprese italiane, doveva
affacciarsi e prendere piede, tuttavia perché
guardando il grafico sottostante non riusciamo a stimare il “propagandato”
contributo migliorativo al PIL da parte degli immigrati?