Saggio breve su un’ingiustizia lunga

 
di Salvo Bascone
 
In un paese a conformismo avanzato come il nostro dove impera il “così fan tutti”, dove l’atavico “si fa ma non si dice” (retaggio borghese-cattolico) è stato da tempo sostituito dal più opportunistico “si pensa ma non si dice”, colpisce l’articolo a firma L.F. (Lucio Ficara) sulla Tecnica della scuola di qualche settimana fa intitolato “Carichi di lavoro differenti per stipendi uguali”.
Nell’articolo (8/7/2013), in sostanza, il buon Ficara si pone una domanda “Perché gli stipendi dei docenti non devono tenere conto dei carichi di lavoro obbligatori ed oggettivi che alcuni docenti svolgono, mentre altri sono esentati?” e qui mi sarei aspettato una successiva ondata di commenti pro o contro. Macché, silenzio. Come da copione.
In verità l’argomento non è proprio nuovo ma appartiene, per l’appunto, più alla sfera del “si pensa ma non si dice”. Personalmente ci provai, già una decina di anni fa, a sollevare la questione in sede sindacale-contrattuale; inutile dire che venni guardato male, additato come pericoloso sovversivo di un presunto ordine costituito e mi sentii, come don Abbondio, un vaso di coccio tra tanti di ferro.
Ci prova anche Tuttoscuola, in un articolo datato 3 dicembre 2012: “Nella scuola no. Si parte uguali, si arriva uguali, indipendentemente dalla quantità e dalla qualità del servizio reso.” E così prosegue l’articolo fino all’immancabile Don Milani “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”, diceva Don Milani (“Lettera ad una professoressa”).
Dice Ficara: “Si verifica che, i docenti, pur avendo carichi di lavoro sostanzialmente differenti, percepiscano stipendi uguali. I sindacati perché non intervengono a sanare una così evidente disparità?
 
 

 
   
C’è differenza tra due categorie d’insegnanti: ci sono quelli per cui il termine del lavoro quotidiano coincide con il suono della campanella dell’ultima ora in una concezione prettamente impiegatizia (schiamazzo degli alunni in uscita e vai! Tutto il resto è vita) e chi il lavoro se lo porta a casa e allora il lavoro, in questo caso, non finisce mai e non ci sarà mai né una qualsiasi contrattazione sindacale né uno sciocco cantore della sbandierata e grottesca saga meritocratica pronti a quantificarlo e a riconoscerlo.
I politici più accorti e i bravi sindacalisti sanno bene che in un paese civile ed europeo, la scuola dovrebbe essere un luogo fisico dove tutti (davvero tutti: studenti, prof., ATA, ecc.) entrano al mattino per uscirne attorno alle 18.00 (con relativi servizi mensa ecc.) e dove tutto il lavoro viene svolto ed esaurito con l’imperativo che nessuno debba portarsi lavoro a casa, né lo studente né il professore.
Caro Ficara, lo sanno bene loro ma sanno pure che tutto ciò comporta un radicale ripensamento dell’ordinamento scolastico italiano (e non le riformine Berlinguer-Moratti-Gelmini) ed un impegno finanziario enorme.
Ultimamente capita di sentire delle vocine scomposte tipo: “e basta con voi d’italiano e matematica, ormai tutti abbiamo verifiche scritte da correggere…”. Certo, non è proprio la stessa cosa contare crocette e quadratini (mezz’ora per un’intera classe) e tirare fuori un qualche pensiero da un groviglio inestricabile stile sms senza grammatica e sintassi.
Personalmente sono stufo di correggere quello che è in realtà incorreggibile, sono stufo di consumarmi gli occhi sopra grafie impresentabili (ma sarà una m o una n?); i nostri colleghi di 30 o 40 anni fa si sarebbero rifiutati in massa e li avrebbero bocciati senza pietà; a noi tocca invece, perché questo rimane il nostro lavoro, dare una veste di legittimità all’analfabetismo di massa del degrado italiota che stiamo attraversando.
Personalmente sono stufo di sacrificare interi pomeriggi e domeniche a preparare e a correggere compiti pensando magari alla collega X che sicuramente, nel mentre, è a fare shopping con le amiche e alla collega Y che va al cinema.
Personalmente sono stufo, mentre sto correggendo la prima prova agli esami di stato (collegiale? sic!), del collega che mi alita sul collo “ma ancora lì sei?” oppure “ma quanti ne hai ancora?” oppure “ma allora, a che ora pensi di finire?” perché loro, i collegucci della commissione che non hanno nulla da fare non hanno rispetto né per te né per quel lavoro che stai svolgendo anche per conto loro.
Personalmente sono stufo di rileggermi l’art. 36 della Costituzione, sì proprio lei, sì la Costituzione di cui tutti si riempiono la bocca non avendola mai vista nemmeno da lontano. E perché cosa dirà mai questo articolo della nostra Carta?
Art. 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Altro che art. 29 del CCNL, signori è la Costituzione a parlare… l’art. 36, più chiaro di così?
 
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”
Avere una retribuzione proporzionata rispetto a quantità e qualità del lavoro è dunque un diritto costituzionale ma il grigio egualitarismo sindacale degli ultimi decenni (“far parti uguali fra disuguali”, don Milani docet) ha imposto esattamente il contrario di quanto stabilito in Costituzione.
 
Ora, concludendo, chi se la sentirebbe mai di andare davanti alla Corte costituzionale per riaffermare il sacrosanto principio violato che afferma il diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità”? E chi se la sentirebbe mai di affermare che gran parte dei nostri contratti nazionali di comparto è addirittura anticostituzionale?
 
Salvo Bascone