I sindacati sulle barricate I prof somari non si toccano

Se un alunno non è preparato, forse è un somaro. Se due alunni non sono preparati, forse sono due somari. Ma se intere scolaresche non sono preparate, beh, forse bisogna cominciare a pensare che sono un po’ somari anche i professori. Ed è per questo che l’idea del governo, una volta tanto, sembra azzeccata: mandare a ripetizione gli insegnanti delle classi che cascano miseramente sul test Invalsi. Una prova quest’ultima che può avere mille difetti, per l’amor del cielo, ma che di sicuro dà un’idea dello stato della nostra scuola. Piuttosto disastroso, come è noto. Soprattutto al Sud dove ci sono schiere di studenti fermamente convinti che le Fosse Ardeatine siano un fenomeno carsico e il Perù un biscotto ricoperto di cioccolato che confina col Togo.
La situazione è nota: uno studente siciliano di seconda superiore totalizza al test d’italiano 183 punti, un suo coetaneo della Lombardia 214 (34 punti di differenza); uno studente sardo di seconda superiore totalizza al test di matematica  178 punti, un suo coetaneo di Trento 226 (48 punti di differenza). La media della scuola italiana è un apostrofo sbilenco fra due realtà completamente diverse: una frattura aggravata dal fatto che poi, al momento della maturità, le più alte percentuali di punteggi massimi si verificano proprio nelle malandate scuole del Sud. Com’è possibile? Tutti geni incompresi al test Invalsi e tutti Pico della Mirandola all’esame finale? Ma andiamo…





Da queste sensate osservazioni nasce l’idea del ministero dell’istruzione, un articolo già inserito nel decreto–scuola pubblicato in Gazzetta e persino finanziato con 10 milioni di euro, che non saranno molti ma in questi tempi non sono nemmeno da buttare. La norma prevede che quando una classe totalizza al test Invalsi risultati significativamente al di sotto della media, i suoi insegnanti vengano spediti ad un corso di formazione aggiuntivo che si terrà (badate bene) nelle ore pomeridiane e senza un soldo di retribuzione. Quest’ultimo fatto ha subito scatenato la reazione dei sindacati che hanno risposto con il solito «no pasaran»: la colpa di una classe che non funziona, dice per esempio a Repubblica Francesco Scrima, leader della Cisl scuola, non è mica del professore. Macché: è «delle condizioni di contesto».
E in questa risposta, purtroppo, c’è tutto il male della scuola e (forse) della società italiana. Le condizioni di contesto sono, infatti, una di quelle  espressioni del giustificazionismo attraverso cui è stata cancellata totalmente la responsabilità individuale. Il rom uccide un vigile? Colpa del contesto. L’adolescente accoltella la mamma? Colpa del contesto. Lo studente è un fannullone patentato? Colpa del contesto. Il professore anziché insegnare fuma la pipa in corridoio? Colpa del contesto. Il mitico «contesto» copre tutto, garantisce l’immunità da qualsiasi colpa. È un alibi perfetto.
In più, in questo caso, il «contesto» viene usato per proseguire su una strada che è una delle cause principali del disastro formativo nazionale: attraverso di esso, infatti, si vuole impedire di valutare in qualsiasi modo il lavoro di un insegnante. Per i sindacati è una specie di totem intoccabile: tutti coloro che salgono sulla cattedra devono essere uguali, trattati allo stesso modo, che siano i migliori professori del mondo o dei pazzi che si travestono da Zorro e, brandendo la sciabola, dichiarano guerra ai bidelli. I bravi e meno bravi, quelli che ti formano per sempre e quelli totalmente incapaci, gli scrupolosi e i cialtroni, gli sgobboni e i lavativi, i sempre presenti e gli assenteisti: tutti sulla stessa barca, appiattiti verso il basso, con gli stessi stipendi da fame, senza nessuna possibilità di emergere o di farsi valere. O di recuperare chi non va.
Nella scuola italiana, nonostante tutto, continua a vincere questo assurdo egualitarismo verso il basso,  un appiattimento disastroso, l’abolizione totale della meritocrazia. Una pratica che, alla fine, premia soltanto i professori peggiori,  come quegli asini denunciati dai siti dei ragazzi, che annunciano in classe «Per completare gli Usa ci manca il Canada» o «I barbari sono chiamati così per le loro lunghe barbe», oppure quelli che dicono: «Smettetela o non ce la facete a passare l’anno» o scrivono che l’ultimo libro della Bibbia è «La pocalisse». Purtroppo ce ne sono davvero. Troppi. Ma siccome ce ne sono anche tanti, anzi: tantissimi, bravi, io continuo a domandarmi: perché non si ribellano? Ci guadagnerebbero molto: loro, la scuola. E soprattutto gli studenti.
Invece niente. Ci hanno provato in tanti a inserire criteri  per «misurare» i prof, dal ministro Berlinguer al ministro Gelmini. Nessuno ci è mai riuscito. Una legge del 1993 imponeva un obbligo di valutazione: è rimasta lettera morta. Lo stesso Invalsi, l’istituto che prepara i test  per gli studenti (48 dipendenti, 6 milioni annui di budget, una sede bellissima in una villa cinquecentesca a Frascati con stucchi, affreschi e saloni di lusso) nasce nel 1997 proprio per valutare il sistema d’istruzione. Per questo l’idea di usare finalmente quei test per controllare non solo la preparazione degli studenti ma anche quella degli insegnanti non è per nulla sbagliata. Anzi, è sacrosanta. Ma temo di sapere già come andrà a finire: insurrezione totale, corpo docente sulle barricate, «la scuola non si tocca». E ai corsi di formazione supplementari, statene certi,  non ci andrà nessuno. O, al massimo, ci andrà il «contesto».

di Mario Giordano


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