Intervista su lingua italiana e lingua degli immigrati con il Prof. Emilio Manzotti dell'Università di Ginevra
Per Emilio Manzotti "la situazione
per l’italiano in Svizzera è poco rosea. Molti i fattori negativi: il
sovraccarico dei programmi scolastici, il pregiudizio didattico-pedagogico che
'studiare troppe lingue' nuoccia al possesso della prima lingua. L’assoluta
preminenza dell’inglese. Infine i metodi 'moderni' di didattica riescono ad
insegnare poco e male". Nel 2016 si
è letto molto sulla tutela e la promozione della lingua e cultura italiana (e
romancia) in Svizzera, e l’insegnamento delle lingue nazionali nella scuola
dell’obbligo e per l’istruzione scolastica di base. Infatti, il 6 luglio 2016,
per migliorare le condizioni dell’insegnamento della lingua italiana, il
Consiglio federale ha incaricato il Dipartimento federale dell’interno (DFI) di
svolgere una consultazione sulla revisione della legge federale sulle lingue
nazionali (l’italiano è una delle lingue nazionali in Svizzera) e la
comprensione tra le comunità linguistiche (legge sulle lingue, LLing; RS
441.1). Per saperne di più sullo stato della lingua italiana in Svizzera, la
professoressa Fuduli Sorrentino ha intervistato
Emilio Manzotti , professore ordinario di Linguistica italiana alla Facoltà di Lettere dell’Università di
Ginevra , dove ha creato e dirige, dal 1995, il Diploma di specializzazione in
Techniques de la communication écrite dell’Università di Ginevra, con ambiti di
ricerca sulla semantica, lessicale e frasale, l’analisi linguistico-stilistica
del testo poetico otto-novecentesche e la didattica dell’italiano, in
particolare della scrittura comunicativa.
Il professor Manzotti attualmente lavora
ad una nuova edizione da Adelphidella Cognizione del dolore di C.E. Gadda;
co-dirige i “Quaderni dell’Ingegnere. Testi e Studi gaddiani, e fa parte del
comitato scientifico di “Langages”. Egli ha insegnato anche alla City
University di New York (Pro Helvetia Swiss Lectureship 1996-97), alla Vrije
Universiteit Brussel, e alle università di Bergamo, Catania,Pavia, Berna,
Friburgo, Zurigo.
L’italiano è una delle quattro
lingue ufficiali in Svizzera e nonostante il Canton Ticino sia di lingua
italiana, negli altri Cantoni da diversi anni l’insegnamento dell’italiano è
facoltativo. Anche il presidente di Asdli, Associazione svizzera della lingua
italiana, Pietro Gianinazzi, ha evidenziato il problema. Perché l’assoluta
indifferenza dei governi sulla diffusione dell’italiano negli altri Cantoni
Svizzeri?
“Mi sembra eccessivo parlare di
«assoluta indifferenza» dei Cantoni francofoni e germanofoni alla «diffusione»
– presenza e in particolare insegnamento liceale obbligatorio – dell’italiano.
A livello di princìpi, almeno, tutte le istanze politiche difendono in astratto
le due lingue minoritarie: il romancio, che sopravvive, non si sa (ahimè) per
quanto, in una sua nicchia dorata (con uno statuto che sembra sempre più quello
di una curiosità etnolinguistica), e l’italiano, dietro il quale c’è, bene o
male, una delle grandi economie mondiali. In concreto, la situazione è però
anche per l’italiano in Svizzera poco rosea. Molti sono i fattori che agiscano
negativamente. Basta qui ricordarne alcuni.
In primo luogo il sovraccarico dei programmi scolastici, in cui deve
entrare di tutto e ancora un po’. Quindi, l’insipiente pregiudizio
didattico-pedagogico (presente anche in certi àmbiti accademici) che “studiare
più lingue”, “troppe lingue” sia un peso eccessivo per le intelligenze dei
giovani allievi, e nuoccia al possesso della prima lingua. Naturalmente, poi,
cosa scontata, l’assoluta preminenza – mass media e stereotipi
economico-culturali aiutando – dell’inglese, la “lingua che serve per il
lavoro”. A ciò aggiungerei che i metodi “moderni” (la peggior modernità che ci
sia) di didattica delle lingue, italiano o tedesco o altre, riescono ad
insegnare poco e male; dopo sette anni di corsi obbligatori di tedesco (per non
parlare dei quattro anni dell’italiano), molti in Svizzera romanda preferiscono
di fatto interagire con interlocutori svizzeri tedeschi in un poverissimo
pidgin inglese…”
Una lettrice mi ha scritto
dalla Svizzera dicendomi: ‘Mia figlia,
che insegna italiano e spagnolo in un liceo scientifico pubblico di Ginevra, da
molti anni incontra serie difficoltà per raggiungere il numero di studenti. La
cosa più strana è che a richiedere l’insegnamento dell’italiano non sono i
figli degli emigrati (meno del 10%), ma i ragazzi francofoni’ . Professor
Manzotti, perché i figli degli emigrati italiani non scelgono lo studio
dell’italiano?
“La risposta potrebbe paradossalmente
essere che gli italiani dei decenni di emigrazione storica si sono integrati in
fretta e bene, anzi benissimo, e questo anche dal punto di vista linguistico,
conservando sovente un legame solo folkloristico al loro paese o piuttosto alle
loro regioni e provincie. Nessuna meraviglia che i loro figli o nipoti non
sentano forte il bisogno di mantenere un legame con la cultura d’origine della
famiglia. Una risposta più articolata dovrebbe tenere conto della classe
sociale d’appartenenza della famiglia, della mini-politica linguistica in seno
alle famiglie (che lingua, che lingue si parlano; come si differenzia tra l’una
e l’altra lingua…), e magari ancora del crollo negli ultimi decenni del
prestigio politico e in parte, purtroppo, culturale, del Belpaese”.
Quali sono state le
conseguenze che gli immigrati italiani hanno dovuto affrontare per favorire
l’adattamento in un ambiente diverso da quello lasciato alle loro spalle?
“Vale un discorso analogo al precedente:
inevitabile assimilazione a tutti i livelli, e in particolare a livello
linguistico. Lo dico in senso positivo, e in senso negativo. Chi per trovar
lavoro ha dovuto emigrare (non parlo qui dell’espatrio in anni recenti di
numerosi laureati e ricercatori) non era certo consapevole di essere
depositario e portatore di una cultura di alto livello. Sempre a livello
linguistico, la ‘resistenza’ nei confronti delle nuove lingue, francese,
tedesco, ecc. in cui gli immigrati si trovavano immersi era nettamente
inferiore nel caso di parlanti dialettofoni o semi-dialettofoni – lo dico con
tutto il rispetto per i dialetti delle regioni d’Italia, carichi anch’essi di
tradizione e cultura, a volte anche di cultura letteraria (il siciliano, il
napoletano, il veneto, il lombardo, ecc.) di alto livello. Nella stragrande
maggioranza dei casi i genitori si sono adeguati e allineati alla lingua nuova
che i figli scolarizzati portavano in casa…”
Nel cambiare lingua e cultura
per integrarsi nella società svizzera, insieme al nuovo modo di esprimersi gli
italiani hanno dovuto abbandonare, o modificare, anche la propria
identità?
“Difficile rispondere ad una domanda
come questa. Dipende da cosa si intende con “identità”, da come la si delimita.
E dipende naturalmente dal fattore età, vale a dire dal ‘grado di identità’, da
come questa fosse o non fosse in origine consolidata. Un bambino trapiantato in
altra cultura ha inevitabilmente un grado molto basso di identità culturale, e
sarà pronto ad essere completamente plasmato, rimodellato dalla nuova cultura.
L’identità culturale, nel senso esteso del termine, di un adulto sarà
ovviamente più solida, più resistente, anche se il nuovo contesto, anno dopo
anno, tenderà in parte a modificarla – per quanto mai, ritengo, in
profondità”.
Secondo la sua analisi, la
lingua degli immigrati italiani in Svizzera differisce linguisticamente
dall’italiano in Italia? E in che
modo?
“Qui si entra, con la problematica che
Lei sta evocando, in un ambito tecnico, se non specialistico. Negli scorsi
decenni sono stati prodotti molti e pregevoli studi sull’argomento, studi che
esaminano e classificano le interferenze tra italiano e francese e tra italiano
e tedesco. Magari ricordiamo di passaggio che anche l’italiano della Svizzera
italiana, Canton Ticino e Grigioni italiano, ha sue peculiarità, specie a
livello lessicale, parte delle quali non sono semplicemente dei regionalismi
“autonomi” (come, poniamo, quelle dell’italiano toscano o siciliano), ma sono
proprio “di contatto”, dovute a contatti di vario tipo (amministrativo,
commerciale, e via dicendo) con le altre lingue della Confederazione.
Semplificando, io direi che è inevitabile e del tutto normale che l’uso
linguistico di qualunque parlante rechi traccia dell’altra o delle altre lingue
a cui ogni giorno è esposto. Un pugliese trapiantato a Torino o a Trento, per
eccellente italofono che fosse a casa sua, dopo venti anni non parlerà di certo
lo stesso identico italiano regionale che era in origine il suo. E così è
inevitabilmente nell’emigrazione. Non è giusto parlare semplicemente di errori,
di un ‘difetto di lingua’, anche se gli errori senza dubbio almeno in parte ci
sono. Il fenomeno in questione è quello dei contatti tra lingue, a cui è
propria una differenziata e complessa tipologia. Ciò detto, e messo da parte
per un momento il “linguisticamente (e politicamente) corretto, è giocoforza
nell’emigrazione prendere atto in non pochi casi del collasso – più o meno
pronunciato – delle strutture grammaticali (morfologia e sintassi)
dell’italiano, per non parlare del lessico. A volte il risultato è, o meglio è
stato, una sorprendente neo-lingua composita. Ricordo, decenni or sono, il libero
e disinibito discorrere di un amico ciclista, cioè costruttore e riparatore di
biciclette, qui a Carouge-Ginevra, in uno straordinario guazzabuglio di
friulano, italiano, francese, spagnolo e portoghese: la propria lingua (il
friulano) e le lingue delle persone che circolavano in quel luogo deputato
d’incontri tra comunità linguistiche che era l’atelier ciclistico. La cosa più
notevole era comunque il fatto che la mescolanza delle lingue era sì parte
involontaria, ma parte voluta, caricaturata a fini ‘espressivi’, come direbbe
un linguista”.
Prof. Manzotti quanto
influiscono le parole che usiamo ogni giorno, in generale la nostra più o meno
grande competenza linguistica, sul nostro percorso professionale e
personale?
“Quanto influiscono? Tantissimo: tutti
viviamo, individualmente, professionalmente e socialmente nella lingua e grazie
alla lingua. Conosciamo il reale agendo e interagendo anche linguisticamente,
oltre che col fare. Più raffinato ed elaborato lo strumentario linguistico a
nostra disposizione, più articolata, più raffinata sarà la nostra percezione
del mondo interiore e del mondo fuori di noi. Un grande scrittore di lingua
tedesca, Theodor Fontane, aveva, o quanto giustamente, affermato in un suo
splendido romanzo psicologico-sociale uscito nel 1892, Frau Jenny Treibel, che
«La cosa più bella che possediamo è proprio la nostra lingua». Non c’è dubbio:
la lingua è il nostro più importante patrimonio culturale, lo strumento
principe a nostra disposizione per conoscere e modificare il mondo. E per farci
strada nel mondo”.
Quanto capire il passato degli
immigrati italiani potrebbe essere utile all’Italia che oggi si trova a dover
fronteggiare problemi legati all’immigrazione?
“Quello che Lei propone è un parallelo
importante, da tenere sempre ben presente, una volta fatte le dovute
distinzioni (ad esempio tra immigrazione linguisticamente, culturalmente e
geograficamente ‘prossima’ – quella di chi parla una lingua romanza, ad
esempio, o anche una lingua slava – e immigrazione più o meno ‘esotica’ – col
bagaglio linguistico di una lingua centro-africana o estremo-orientale, ad
esempio). Un simile parallelo aiuterebbe ad evitare false vie nella politica di
integrazione. Un ragionamento approfondito, che tenesse conto di tutti i fattori
in gioco, ci porterebbe molto lontano. Basterà ipotizzare qui, a chiudere il
nostro dialogo, che la via maestra è forse quella “mediana”, a metà strada tra
assimilazione totale e comunitarismo. Il che comporta, dal punto di vista
linguistico, da una parte un apprendimento rapido ma solido dell’italiano via
corsi obbligatori di lingua e di cultura in senso esteso (regole di convivenza
civile, ma anche rudimenti di letteratura, di arte, di musica, ecc.);
dall’altra, perché no?, un sostegno, un rafforzamento della lingua e della
cultura di origine tramite corsi ed iniziative di vario tipo e livello (ad
esempio televisive, al posto delle desolanti chiacchiere attuali) – che
aprirebbero oltretutto nuove prospettive agli stessi italofoni, e
costituirebbero una notevole fonte di arricchimento culturale”.
Filomena
Fuduli Sorrentino
Una Prof. in America per La voce di NY
Filomena Fuduli Sorrentino ( Per La Voce di New York )