Nella scuola viene prima la carriera o gli affetti familiari

Tutti noi conosciamo almeno un esemplare dei cosiddetti «workaholic», gli «alcolisti del lavoro» che non sono semplicemente appassionati di ciò che fanno, ma ostentano un fiero e superbo stacanovismo. Quelli che si vantano di saltare i pasti e fare le ore piccole in virtù della produttività, che se gli racconti di aver detto «no» a una qualunque occasione di carriera, magari perché ti avrebbe fatto trascurare i tuoi figli, ti guardano come se fossi un alieno o un povero fallito privo d’ambizione.  Prima del 1971 chi oggi verrebbe definito un workaholic veniva invece chiamato stacanovista. Raramente la società lo vedeva come un soggetto in patologia, spesso veniva ammirato e lodato per il suo spiccato senso del lavoro.
Nel 1969 in Giappone si ha il primo caso noto e studiato di persona deceduta per lo stress per il troppo lavoro. Solo negli Stati Uniti, in Germania ed in Giappone, la società comincia ad avere coscienza che tale comportamento autodistruttivo abbisogna di un approccio, analisi e classificazione medica. In Italia non era raro imbattersi ancora nella metà degli anni novanta con psicologi e medici che ignoravano tale patologia comportamentale. Con la diffusione di internet gli studi scientifici su tale fenomeno sono diventati di pubblica diffusione tra gli addetti ai lavori, ma tale patologia rimane ancora pressoché sconosciuta in Italia nella popolazione comune.
La società, gli amici, l'ambiente di lavoro ed il consenso che il workaholic si costruisce giorno per giorno lo fanno mimetizzato tra la società, invisibile, rispettabile, tanto da non comprendere il motivo per cui la famiglia si lamenta. È questo il classico segno di riconoscimento del workaholic: il dualismo tra consenso esterno e notevole risentimento dei familiari. Ma chi vive con un workaholic si sente tradito, impotente: competere con un'ossessione così forte è impossibile.