Cosa resta del banco?

Nell'immaginario collettivo del dopoguerra, il banco era il simbolo dell'opportunità, del riscatto sociale. Andare a scuola non era una prerogativa di tutti i bambini, ma solo  di quelli più fortunati. Il banco poi era  un'emozione che andava al di là delle aspettative. Seduti, si sognava un futuro diverso per se stessi e, con i bambini, anche le famiglie avevano una speranza di avere, e dare, un futuro migliore di quello che si potesse immaginare. Aprendo il sussidiario si odorava la storia, si viaggiava tra le carte geografiche, si accedeva ad un mondo tutto da scoprire e ci si sentiva a metà tra un esploratore e un generale, tra un mecenate rinascimentale e un illuminista settecentesco. Le poesie si imparavano a memoria e la memoria era la chiave d'accesso tra il passato e il presente. Nel banco ci si sedeva composti e il maestro, o il professore, era molto rigido sul comportamento che ogni studente doveva tenere. Un decoroso comportamento verso l'Istituzione prima di tutto, verso il proprio Paese a cui guardare con rispetto e orgoglio.  Era una scuola diversa, ovviamente, la cui organizzazione si basava su principi  molto semplici, lineari, ma saldi. E quella solidità  era anche un'ancora  per la comunità così  come quel banco, vecchio e obsoleto, che ci ha accompagnati fin qui.  Oggi quel banco è di nuovo al centro della storia della nostra scuola e deve rispondere alle mille richieste della società moderna, messa ultimamente sotto scacco dal virus. Un evento a cui non eravamo preparati e che ci ha svegliati, quasi intorpiditi; ci ha riportati alla questione, spesso dimenticata, dell'innovazione scolastica.  Nel nefasto 2020, abbiamo realizzato che quel banco doveva cambiare. Finalmente ci si è accorti che la risposta ai problemi atavici, che attanagliano la scuola italiana da decenni, è chiara e necessaria. Con un colpo di accelerazione sulle rotelle si cambia il modo di imparare; basterà uno sbilanciamento del corpo verso destra o verso sinistra, avanti o indietro, per creare connessioni tra i compagni e rivoluzionare gli ambienti di apprendimento. Il piano  che viene definito  "di appoggio"  è molto ristretto: possiamo dire in tutta tranquillità che sarà della misura degli avambracci dello studente; ci si potrà  appoggiare, oltre che l'avambraccio anche uno, e uno solo, dei  libri che si è obbligati a comprare, preferibilmente in forma mista, cosicché  anche il digitale potrà accorrerci in aiuto, se avremo il dispositivo. Tuttavia, qualora volessimo  rivivere quel "momento - amarcord", non potranno essere appoggiati in posizione "aperta" e figuriamoci se ciò avvenisse con la compresenza  di un quaderno, anch'esso aperto per scrivere alla vecchia maniera qualche appunto.

Il banco  "anti- covid19", qualunque esso sia, senza accanirsi su quello impropriamente detto "innovativo", servirebbe a rendere possibile il distanziamento tanto necessario, è vero, ma forse è giunto il momento di chiedersi: che cosa resta, oggi, del banco? di quel banco che faceva da ponte, sul quale si appoggiavano le speranze del futuro, sul quale fermarsi per immaginare, manipolare, segnare e correggere, progettare parole e numeri in architetture utili alla propria formazione?

Un banco è sempre un banco direte voi, e le tecnologie  annulleranno i vuoti materici; si può imparare, e sognare, in un contesto destrutturato.

È possibile, certo, perché  l' uomo è un essere adattabile, ma facciamo attenzione che se il banco, inteso come unità di misura dello spazio dell'apprendimento, rimane sempre più svuotato, sempre più povero, sempre più indebolito, se l'ambiente di apprendimento si inaridisce, se sempre meno si guarda allo spessore qualitativo, se  anche i docenti alla fine non saranno così necessari (addirittura nell' arco dello stesso a.s.)  se i programmi saranno sempre più snelli, se la valutazione sempre più svalutata e le competenze sempre più rimandate, allora la scuola diventerà orfana della sua  storia e del suo significato più intrinseco.

Cosa resterà della formazione italiana, quella che nonostante tutti i tentativi di affossamento,  si fa  ancora sentire nel modus operandi "made in Italy"?  Uomini e  donne che  ancora oggi  sono  capaci  di individuare soluzioni, di prendere iniziative, di descrivere emozioni e melanconie, di essere delle eccellenze. E il mondo ancora oggi, a dispetto delle forme pedagogiche più all'avanguardia, ce lo riconosce!

 Cosa accadrebbe se questo venisse meno?

Si destrutturerebbe  il vissuto esperienziale degli studenti, i segni che in quel luogo, nella scuola,  hanno lasciato; il banco diventerà  innovativo, certo, ma di un nuovo vuoto, privo di nuove esperienze concrete, di errori nuovi di  tentativi nuovi, di scarabocchi nuovi, di lacrime e di sorrisi nuovi, di strategie.

Non dovremmo riempire imbuti, per carità, nessuno se lo augura. Piuttosto  dovremmo valorizzare le menti divergenti, abbracciare le diversità, includerle seriamente nel progetto   complementare di  scuola digitale e analogica, nella formazione  di idee e nello sviluppo di nuovi e molteplici approcci allo studio. Non dovremmo creare spazi o distanziamenti ma riempirli di energie di connessioni. La tecnologia sarà  utile non solo per agevolare l'accesso all'informazione ma per realizzare prodotti in cui convergono, si realizzano, prendono forma energie e intuizioni, sinergie e collaborazioni.

Se il banco si riempisse di tutto ciò, avremmo fatto un gran passo avanti, ma se quel banco rimane vuoto, voi ancora non lo sapete, avremo perso tutti; saremmo innovatori del niente.


Simona Mastroddi